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Mitografie
dell’anima: frammento per Floriano Bodini
di Marisa Zattini
«Quando tutte le anime si erano scelte la vita, secondo che era
loro toccato, si presentavano a Lachesi. A ciascuna ella dava come compagno
il genio [daimon] che quella si era assunto, perché le facesse
da guardiano durante la vita e adempisse il destino da lei scelto. E
il daimon guidava l’anima anzitutto da Cloto: sotto la sua mano
e il volgere del suo fuso, il destino prescelto è ratificato.
Dopo il contatto con Cloto, il daimon conduceva l’anima alla filatura
di Atropo per rendere irreversibile la trama del suo destino. Di lì,
senza voltarsi, l’anima passava ai piedi del trono di Necessità».
(Platone, Repubblica) Dopo
il primo ciclo espositivo dedicato al tema del tempo (Nel segno del
tempo)
ed il secondo che si è aperto alle suggestioni della memoria (Memorie
alchemiche) attraverso l’alchimia delle opere scultoree presentate
nelle rocche in Romagna, questo terzo ciclo intende rendere omaggio alle
Mitografie dell’anima, alle costruzioni che l’intelletto
dell’artista esplica attraverso memorabili sculture, testimonianza
e specchio della sua anima.
Nella citazione, Platone racconta del mito di “Er” affinché non “dimentichiamo” perché proprio
salvando il mito salveremo noi stessi. Il mito visto come una funzione
psicologica di redenzione, come analizza Hillman. Forse i sogni e le
illusioni, i miti e i ricordi possono ridisegnarsi attraverso l’arte
e l’adesione che essa suscita può provocare in noi dei mutamenti
per imprecisate evoluzioni future. Le mitografie dell’anima, cioè lo
studio analitico delle personificazioni dell’inconscio collettivo,
sono infinite, come infinita è la fantasia, strumento dell’anima.
E la fantasia che contraddistingue ogni artista non è semplicemente
un processo interiore soggettivo bensì, come sosteneva Jung, «un
modo di essere nel mondo e di restituire al mondo l’anima. […] è un “fattore” nel
senso proprio del termine. Non può essere fatta dall’uomo;
al contrario, è sempre l’elemento a priori dei suoi umori,
reazioni e impulsi; e di tutto ciò che esiste di spontaneo nella
vita psichica. È qualcosa che ha vita propria e che ci fa vivere; è una
vita che è dietro la coscienza e che non può mai essere
completamente integrata con questa, ma dalla quale, piuttosto la coscienza
emerge».
James Hillman parla di “anima individualizzata” che è solo “lampo
di intuizione”: «L’anima è il bersaglio della
freccia, il combustibile del fuoco, il labirinto in cui l’eros
intreccia la sua danza».
Anche Bachelard attribuisce all’anima la coscienza delle immagini,
delle fantasticherie e delle profondità. Facendo un distinguo
fra Anima e Animus egli associa l’Anima alla rêverie, in
contrapposizione con Animus e attività onirica, mentre Corbin
la associa all’immaginazione, Marsilio Ficino ai fantasmi mentali
(idola) e al fato, Onians alla vita e alla morte, Porfirio allo spirito
umido e all’«opacità aerea» - la definisce infatti «un
fumo sottile e impercettibile». L’Anima è yin, nella
cosmogonia universale, è l’archetipo femminile, è il
Mercurio - anima mundi - alchemico, è la personificazione dell’inconscio, è un
principio cosmico, è l’archetipo della vita psichica stessa.
Richard White scrive: «l’anima umana è “androgina”,
perché le fanciulle hanno un’anima maschile e gli uomini
un’anima femminile» e aggiunge «l’anima viene
chiamata “la vecchia”». Descrive inoltre l’anima
come un’idea di tale potenza da creare le forme e le cose stesse, «inoltre
ha in sé il “Sé” di tutta l’umanità».
L’arte è l’eco dell’anima, è come la
chiave segreta che apre la porta allo sviluppo della coscienza umana, è quel
qualcosa di meraviglioso e di immortale che crea un ponte con l’inconscio
naturale; l’anima è un corpo-sottile, è un soffio
immateriale più rarefatto della semplice aria.
Nelle geografie dell’arte ecco che se Anima è anche un fattore
culturale che plasma l’espressione personale e serve a rielaborare
alle radici l’humus e le funzioni del sentimento, le opere divengono
i residui persistenti di questo sentimento, il frutto ossessivo della
psyche, le tracce dei disegni della memoria, le mitografie straordinarie
della fantasia dell’artista, mitografie della sua anima. Le opere
d’arte sono dunque proiezioni dell’anima che vanno oltre
la vita, il destino e la morte. Tutti gli uomini hanno bisogno della
fantasia, di mitologizzazioni in cui potersi specchiare e riscoprire.
Per questo l’arte non potrà mai morire.
Gli artisti proposti per questa edizione si esprimono nell’ambito
della centralità dell’uomo che è specchio dell’anima
per eccellenza. Protagonisti di questa terza edizione di Rocche & Scultori
Contemporanei sono Floriano Bodini (Rocca Vescovile di Bertinoro), Bruno
Ceccobelli (Rocca Albornoziana di Forlimpopoli), Massimo Ghiotti (Rocca
Malatestiana di Cesena) - con alcune opere collocate di fronte al suggestivo
Castello di Monteleone (Roncofreddo) - e Adriano Bimbi (Fortezza Medievale
di Castrocaro Terme).
Floriano Bodini (Gemonio 1933) è uno dei maggiori protagonisti
della scultura italiana dal dopoguerra ad oggi. Per questa mostra a Bertinoro
abbiamo selezionato quindici opere, che vanno dal 1958 al 1983. Fra quelle
che appartengono agli anni Cinquanta ritroviamo Patrizia (1959) una scultura
emblematica, aspra, non certo “compiacente”, di forte denuncia
sociale. «Patrizia era una mia allieva: era una bella ragazza,
ma aveva nel volto qualcosa di animalesco che mi aveva colpito» (Floriano
Bodini). Quest’opera mette bene in evidenza il clima psicologico
che animava quel gruppo: non era la bellezza che li interessava, bensì l’inquietudine
dei valori spirituali che la guerra, da cui eravamo appena usciti, aveva
messo in pericolo. La superficie della scultura «si screpola, si
fa ruvida come una corteccia, intesa ora a comunicare il senso dell’usura
psico-fisica dei personaggi, di una loro dolente consumazione esterna
ed interna, ora gli umori formicolanti di una carnalità ansiosa». È una
figura disseccata, prosciugata d’ogni linfa, quasi fossilizzata;
una ragazza simbolo della «deformazione inflitta ai valori più intimi
dell’eros da una situazione rivolta unicamente ai richiami del
consumismo» (Mario De Micheli). E ancora Mauro Corradini, nel 1991
scrive: «La figura è strutturata con una sua verità anatomica,
contraddetta costantemente dalla deformazione espressionista del volume
plastico, sia nella modificazione accentuante del volto, sia nella sfilacciatura
che investe non soltanto il vestito, ma il corpo stesso della fanciulla.
La posa, in equilibrio tra movimento e stasi, riporta l’analisi
su una condizione più vasta, rispetto alla realtà di un
ritratto che viene programmaticamente escluso».
Konrad Fiedler sosteneva che un’opera d’arte può “dispiacere” ma
essere ugualmente di grandissimo pregio, cioè il valore dell’opera
d’arte può non coincidere con la “bellezza”.
L’estetico a cui ci siamo abituati, e adagiati, può essere
un pregiudizio che ostacola la piena comprensione. «Bodini non è solo
uno scultore ma un artista, perché rimette in causa le forme,
con lucidità critica pari all’empito immaginativo, ogni
qualvolta le riconosce inadeguate all’evoluzione del suo pensiero,
della sua posizione - intellettuale ed etica - di fronte al mondo in
cui vive» (Duilio Morosini).
Un’altra scultura centrale per questa rassegna è indubbiamente
Il lamento sull’ucciso, un’opera «d’un primitivismo
stilistico di nordica asciuttezza, cui appropriatamente è stata
attribuita una qualificazione “gotica”» (Nicola Micieli,
1988). Questa installazione, composta dalle due sculture Donne (1960)
e L’ucciso (1960), venne così disposta alla Biennale di
Venezia del 1962, e così ha voluto riproporla oggi l’artista,
al centro della corte interna della rocca. È sicuramente l’opera
culminante del linearismo tipico di questo periodo in cui si condensa
e si acuisce l’importanza evocativa del tema “civile”.
«
Sul fondo le due donne sono testimonianza del dolore», ha detto
recentemente in un’intervista Floriano Bodini. Si notino i modi
coi quali l’artista insiste nella deformazione: si tratta di una
deformazione espressiva che tormenta le due figure per farne sprigionare
l’intima tristezza, il senso di abbandono in cui sembrano vivere.
La deformazione è qui un’esigenza morale che si trasforma
in linguaggio plastico senza venir meno alla propria natura.
La drammaticità raggiunge l’apice nella figura dell’ucciso
che viene ben interpretata da Elena Pontiggia, nel testo scritto per
questa occasione.
«Per quest’opera i critici hanno parlato di un influsso di
Grünewald, che però allora non conoscevo. Sono andato apposta
a Colmar, per vederlo. È uno dei più grandi maestri di
tutti i tempi» (Floriano Bodini). Fra le opere collocate nelle
piccole sale interne, gli Amanti IV (1958) traducono una realtà quotidiana,
di periferia, come altre sculture della fine degli anni Cinquanta - Prostituta
(1957), Ragazza che si allaccia la calza (1958) - ma non sono il portato «di
una storia degradata, narrata con accento verista: sono figure che mediano
la storia, magari sulla sconfitta e sul dolore, certamente sulla necessità di
interpretare il mondo, partendo dalla loro condizione esperienziale» (Mauro
Corradini, 1991). Così “manca” quasi lo sguardo a
questi personaggi, non c’è dialogo tra i due amanti: vivono
entrambi una loro solitudine insondabile. In una condizione plastica
esistenziale si sviluppano come due rami secchi, stilizzati, che ricordano
certe anatomie brogginiane. Ed è con Crocifissione (1963), un’opera
emblematica ed esemplare nella produzione di Floriano Bodini, che l’artista «comincia
ad avvertire l’esigenza d’impostare il discorso plastico
in maniera più forte e determinata. La Crocifissione può essere
senz’altro considerata uno dei segni di una tale inclinazione.
Il Cristo crocifisso vi appare sospeso sopra un gruppo di augusti prelati
cardinalizi: era il momento in cui la Chiesa stava per decidere la scelta
di una nuova strategia della fede e Bodini, artista di radice cattolica,
vi si sentiva coinvolto. Di lì a poco avrebbe infatti messo mano
al suo grande Ritratto di un Papa, un’opera lignea finita nel ’68,
dopo tre anni d’impegno accanito» (Mario De Micheli, 1994),
ora conservata nei Musei Vaticani.
Straordinaria è la frantumazione, «in forma di esplosione-implosione
partendo da un nucleo centrale altrettanto plastico quanto emozionale
in cui si innestano e da cui si proiettano gli specifici elementi plastici
ed espressivi» (Marco Rosci, 1998), che egli sa creare in questo
gruppo scultoreo e la densità proiettiva dei diversi personaggi
rappresentati: «il ripiegamento del corpo del Cristo che compie
una sorta di “confessione” verso la terra, cui sembra tendere
nella sua spossatezza» (Mauro Corradini, 1992). L’anatomia
di Bodini è sempre stregata e visionaria, specchio di un’anima
potente. La visionarietà è inesauribile; la sua è «una
figurazione che non sfiora mai l’alveo naturalistico, che non si
presenta come cronaca del presente, bensì come un riaffioramento
di immagini dalla memoria […]» (Raffaele De Grada, 1986).
Del ciclo delle opere degli anni Settanta ricordiamo Biografia inquieta
di un personaggio femminile (1976), collocata all’inizio (e alla
fine) del percorso espositivo. Quest’opera, dedicata alla “biografia
epicizzante” di Wanda, la prima moglie - che già più volte
aveva affrontato in ritratti straordinari dal ’60 al ’65
- è un esempio sublime delle personalissime modalità costruttive
dell’artista. «Tagliente e compatta, ricca di motivi diramati
con estremo rigore, quest’opera si svolge nello spazio come se
Wanda cavalcasse uno strano Ippogrifo. In realtà Wanda cavalca
i simboli reali della sua esistenza: simboli di tenerezza (la piccola
scimmia), del suo eros (il corno del rinoceronte), della sua “legittima” profanazione
carnale (il lenzuolo nuziale). Sono simboli che sotto di lei, costruiscono
una struttura che si snoda con un movimento orizzontale, in cui fantasia,
stile e linguaggio appaiono e sono indissolubili» (Mario De Micheli,
1994). Un’opera che appartiene all’autobiografia della storia
della scultura di Bodini, nella quale rientrano, come scriveva De Grada,
soprattutto «i personaggi familiari, il padre, la madre, la figlia,
la moglie e quelli che Floriano ha in modo differente amato».
Ha scritto Davide Lajolo in una lirica dedicata allo scultore: «Caro
Floriano: le tue sculture / sono l’autoritratto della volontà /
hanno il tuo volto aperto / la grinta tenerissima. / Le saluto toccandole
appena / come si fa con l’amore / cui basta un gesto / per sentire
tutto il calore / dell’umanità». |