Invenzione a due voci - 2007

Stralci dell’itinerario critico

Alessandro Riva
Vasi feriti e altre cose naturali
e segrete


Silvano D’Ambrosio è uno dei rari artisti contemporanei in grado di tradurre la dimensione tragica dell’esistenza in un lavoro estremamente articolato e complesso, frutto di una forte tensione etica e di una grande raffinatezza compositiva e pittorica, dove i continui rimandi a temi e suggestioni prelevati dal vasto bacino della storia dell’arte e l’incessante gioco di rimandi stilistici tra la tradizione artistica italiana e quella europea - dal cinquecento toscano e lombardo alla miniaturistica fiamminga fino al secentismo spagnolo - si mescolano tra loro senza mai cedere al rischio della citazione o del facile repechage colto e salottiero, e dove l’utilizzo di temi provenienti dalle forme ampiamente codificate della committenza sacra e religiosa (la natura morta come simbolo del memento mori e del linguaggio eucaristico, il paesaggio nelle sue accezioni escatologiche e divine, e poi l’icona sacra, il Corpus Christi, l’immagine mariana e così via) diventano, paradossalmente - e per contrasto con l’insostenibile leggerezza intellettuale e con l’assoluta mancanza di tensione programmatica e morale delle forme artistiche contemporanee più in auge -, il mezzo più estremo ed eversivo di riaffermazione della propria profonda alterità artistica ed esistenziale rispetto a un sistema - quello dell’arte contemporanea appunto - che premia sempre più il narcisismo, la superficialità e la spettacolarizzazione piuttosto che la pregnanza, e la sostanza, del lavoro pittorico e artistico. Del resto, che quello di D’Ambrosio sia - e da sempre - un lavoro giocato sul filo sottilissimo e incerto della diversità è un dato di fatto difficilmente confutabile: tuttavia, la sua ricerca e il suo assorto e solitario errare nei territori ora del fantastico, ora del dionisiaco e del demoniaco, ora dell’orrido e del visionario, ora del simbolico e del mitologico nel suo senso più ampio - attraverso un approccio al mito che ricorda da vicino, e forse volutamente riprende, quello che ha attraversato, circa due secoli or sono, la cultura romantica e preromantica, dove per mito si intende, secondo le parole di Briganti nei Pittori dell’immaginario, quello che «si manifesta spontaneamente solo nel cuore di una situazione irrazionale, distaccata», e che emerge dal cercare, tramite l’esperienza mitopoietica, «la chiave della vera conoscenza e uno sbocco verso l’universale» e «nell’attendere la sua epifania dalle tenebre interiori, dal passato latente nella psiche, dall’inconscio collettivo» -, questo inquieto, dicevamo, a volte sorprendentemente solare e liberatorio, più volte invece cupo, drammatico, doloroso quasi, vagabondaggio d’ambrosiano nei territori aperti e poco battuti dell’inconscio collettivo contemporaneo, è destinato ad apparire oggi, e fatalmente, come un vulnus, una ferita aperta e non rimarginabile in un tessuto che per lo più non è nemmeno in grado di codificare un lavoro come il suo se non nella sua accezione più banale e rassicurante - quella di pittore di vedute, di nature morte e di santi (lui, lontano quanti altri mai dalle forme codificate d’ogni dottrina religiosa, solitario anarchico d’altri tempi e tuttavia quanto mai calato, per temperatura e visionarietà, in questo suo tempo, così carico di demoni notturni risvegliatisi d’improvviso alla luce del sole), quando non di pellegrini, di caminetti o di apparizioni fantastiche. In realtà, a guardare non soltanto il ciclo di lavori presentati in questo catalogo - vasi feriti, cose naturali e segrete (grotte, fiumi, montagne incantate, gli acheronti e gli orti di Getsemani presenti, nostro malgrado, nel punto più fondo e più oscuro della nostra anima e nell’infanzia del nostro inconscio), e poi pani e brocche sensibili al richiamo del divino e dello spirituale, e viaggiatori instancabili, fiori infuocati o sul punto di prendere fuoco, e ancora paesaggi colti nell’ora (nell’oro) del sogno (quell’ora forse in cui l’uomo è tra il sonno e la veglia, l’ora in cui le cose accadono sotto i nostri occhi senza che noi possiamo comprenderne il senso e la direzione, l’ora in cui il paesaggio e la forma stessa del mondo appaiono carichi di un senso e di una vita diversi da quelli in cui siamo usi vederli) -, a guardare, dicevo, non solo questi, ma anche, e solo di sfuggita, quelli presenti in molti dei cicli precedenti - uno per tutti: il ciclo dell’Eden, Santi e qualche disastro, titolo straordinariamente suggestivo per un gruppo di carte drammatiche e folli nella loro visionaria adesione al reale, al presente, al dramma che noi tutti viviamo ogni giorno, su questa terra e su questo pianeta, e di cui l’osceno vento di guerra inauguratosi ufficialmente con l’11 settembre non è altro che il momento dell’epifania e della presa di coscienza collettiva del più vasto senso di crisi che avvolge l’intero tessuto sociale occidentale -, guardando i cicli di oggi e quelli di ieri, dicevo, i quadri di Silvano D’Ambrosio paiono eseguiti davvero in una sorta di stato di grazia, di ebbrezza, di allucinata e magica consapevolezza non solo di ciò che vanno a scardi nare - le nostre certezze sui luoghi comuni spacciati per regole universali dell’oggi sul linguaggio che è lecito o non è lecito utilizzare, sulla possibilità di approcciarsi ancora alla pittura in modo altro, diverso, non come sfida aprioristica al presente né come rifugio estremo dal naufragio della postmodernità, ma piuttosto come elemento fondante, inevitabile e necessario, della propria presa di possesso del mondo; ma anche di ciò che vanno fatalmente a sollevare in chi li guarda - quanto a potenzialità d’emozione, di suggestione e memoria. La pittura di D’Ambrosio è infatti - e in questo risiede gran parte della sua forza - una pittura fondamentalmente d’impeto, di viscere e di stomaco, a dispetto delle implicazioni etiche e programmatiche che la attraversano costantemente; una pittura controllatissima e rigorosa dal punto di vista tecnico, ma allo stesso tempo panica, avvolgente, quasi alchemica e rituale nella sua componente più misteriosa e magica, quella in cui il colore, la pennellata e il segno si confondono tra loro in una sorta di sabba ballato e recitato al chiaro di luna con i soli strumenti della tela e del pennello, un sabba demoniaco o divino - in fondo ha poca importanza -, comunque estremo, al limite a volte dell’allucinazione mistica o dionisiaca, fatto di colore ora liquido e leggero, giocato sulla tela con la fluidità d’un acquerello, ora secco e pastoso, ora appena visibile sulla filigrana della tela, ora assolutamente classico nella sua controllata compostezza formale. Non è un caso, allora, che Silvano D’Ambrosio rappresenti oggi un caso nel panorama dell’arte contemporanea: il caso di un’artista fuori dalle regole e dai giochi della più stretta contemporaneità, il caso di un artista autentico ed eccentrico, dotato di una manualità e di una consapevolezza d’altri tempi, e catapultato a occhi chiusi nel cuore dell’era tecnologica e digitale. E a occhi chiusi, forse, Silvano D’Ambrosio, pittore per necessità e per rarissimo talento naturale, potrebbe oggi dipingere le sue inquietanti nature morte assalite dai rovi, i suoi paesaggi allagati, infuocati o conquistati dalla disarmante forza del tempo, i suoi pellegrini stanchi e ascetici, dotati d’una saggezza che spetta solo ai santi e ai folli utopisti; a occhi chiusi, con la voce e la sensibilità delle viscere e del cuore, prima ancora che quella della mente, perché è dal cuore e dalle viscere - in breve da quell’occhio interiore che sanno affinare solo i grandi artisti solitari e i veggenti -, che proviene il monastico rigore etico e intellettuale che traspare in filigrana dalle sue pitture.

(Dal catalogo “Passaggio
fra i mondi”, Studio Vigato,
Alessandria 2001)