Orme del passaggio - 2003

NEL TEMPO SUPREMO
di Marisa Zattini

«Nel regno del fuoco, siamo braceri di esseri. Nel nostro fuoco, che ci dà energia
e vita, dov’è il tempo supremo: è il tempo della cenere che tiene in caldo il
fuoco di domani? […]».
Gaston Bachelard

L’interiorizzazione delle tenebre e della luce segue e marca compiutamente l’esperienza pittorica e immaginativa di Silvano D’Ambrosio. Sono “risonanze” che incidono traiettorie privilegiate e profonde che corrono verso l’assoluto. Così nell’arte, nella poesia come nella filosofia. In quest’ultimo ciclo di opere, c’è abbandono al ricordo e alla melancolìa, anche se l’artista sembra non concedersi consolazione. C’è anche sofferenza. Come il poeta mantiene viva “l’ustione”, soffia sulla brace e la tormenta, così il fuoco brucia le ferite di questi vasi alchemici, di questi sottili ventri, come per una “poetica del fuoco” che ha intensi richiami panteistici. Come una nuova fenice metamorfizzata ecco impalpabili fuochi riconciliatori che possono nascere all’intensità del sogno della notte o al chiarore velato della luce della rinascita per seguire il proprio destino. Nella cosmologia dei fiori e del loro itinerario fantastico che attraversa secoli di pittura, D’Ambrosio riesce a cogliere e a rinnovare poetica e messaggio partendo dalle profondità dell’apparente reale. È la poesia del linguaggio libero rispetto a se stesso. Egli sa cogliere la parola, rende viva la pennellata in ogni suo breve istante, in ogni pausa, e ricrea il pathos del mistero della bellezza. C’è un piacere sottile, sublimato, liberato che ci pone di fronte alla responsabilità del significato delle cose, al loro messaggio. È come se ricevessimo degli impulsi immaginativi germinanti che trasfigurano il reale. È questa la grande qualità della pittura di Silvano D’Ambrosio. Egli fa del regno della pittura l’universo denso della poesia e del sogno. Senza schiavitù stagnanti. L’artista è libero, e lui lo è negli ondeggiamenti dei fiori, fra il soffio del vento, nelle pieghe dei veli, nel regno del fuoco. L’Artista è da sempre una nuova fenice, un talismano unico al quale Dio ha concesso il dono dell’arte per occultare e svelare i misteri: «basta un pizzico di materia fenicia, qualche granello di aromi per far scaturire una favola alata» (G. Bachelard). Oltre la polvere della memoria stanno questi simulacri, questi vasi feriti e velati, questi fiori che abitano queste dense e diafane tele e si offrono a noi per un ultimo sguardo, già pronte al commiato, oltre la vita e la morte. Stanno in quell’ultima culla che li contiene, come odorosi creatori di miti. Fiori a ricoprire la nudità muta di volti, come maschere che melancolicamente ricoprono il nulla latente che ha già forgiato, forse, anche gli ultimi bagliori del cuore.