L’elogio del rifiuto
di Guido Biasi

 

Oggi il rifiuto è ormai irrifiutabile. Il rifiuto non è solo degno di interesse, ma anche di lode. Il rifiuto è l’umanizzazione degli oggetti, delle cose, di tutte le cose. Oggi siamo portati ad esclamare dinnanzi a un cimitero di detriti, di rottami: «questo luogo ha del meraviglioso, quest’ecatombe di oggetti in disuso, di cose usate e smesse, di rottami in disordine, di avanzi confusi, è affascinante». È perché vediamo in questo luogo qualcosa che sfugge al controllo tirannico del resto della città, degli uomini e delle macchine, dell’ordine e della forma. Ed è anche perché avvertiamo che quel luogo strano e informe ha qualcosa in comune, in fondo, con uno dei tanti «paradisi perduti» che gli uomini, volta per volta, si sforzano di riguadagnare. Il rifiuto è la vendetta fantastica delle cose che si ribellano, ormai logore e vecchie, alle umiliazioni dell’usura e dello sfruttamento. Il rifiuto è il trionfo dimesso degli splendori più segreti e profondi. Il rifiuto è il riscatto postumo dell’oggetto menomato e avvilito dalla sua stessa utilità e dalla utilizzazione. Il rifiuto è infine l’anima scarnita di esso oggetto spoglio della sua funzione, purificato, autentico «che torna ad essere» in quanto significato e non in quanto funzione.
Parafrasando Gide, potremo dire che la patina del tempo e l’abbandono degli uomini consentono all’oggetto-rifiuto quell’aspetto particolarmente incantevole che ci colpisce a prima vista e che altro non è se non una specie di «ricompensa» casuale, fortuita, dovuta appunto alla redenzione dell’oggetto, alla cessazione di quella lunga schiavitù che lo legava (nuovo ed efficiente) alla volontà dell’uomo e alle sue speculazioni. In realtà la bellezza vera degli oggetti nasce appunto con questo affrancarsi dal dominio dell’uomo, ossia con l’inizio della loro esistenza da «rifiuti», e soprattutto dalla loro immissione in quelle fantastiche colonie del caos che solitamente possiamo ammirare presso le periferie delle grandi città, e nei cui recinti sconnessi, o dentro immense fosse del terreno, gli oggetti più disparati vengono a trovarsi l’uno sull’altro, l’uno nell’altro, l’uno accanto all’altro, confusamente, con la più straordinaria libertà di associazione e di combinazione. In questi paradisiaci letamai, in questi villaggi dell’anarchia, in questi immensi cimiteri di rottami e di ciarpame la «natura morta e irrazionale» tiene la sua orgia dentro un mare di ruggine e di polvere. Non a caso questi luoghi di meraviglia vengono posti dall’uomo alla periferia della sua città di fragori; non a caso l’uomo confina queste visioni apocalittiche al di là del suo centro attivo, proprio allo stesso modo dei cimiteri: egli è una specie di bambino che mente soprattutto a se stesso e che, perciò, è consapevole della terribile capacità di ammonire e di evocare propria di questi luoghi, ma specialmente della loro carica di spietata ironia. Tutte cose – queste – alle quali egli cerca di sottrarsi nella maniera più semplice possibile, ossia ricorrendo all’esilio e ai «campi di concentramento» per quell’infinita varietà di «cose» e di oggetti inquietanti e ribelli che minerebbero altrimenti la sua pace fittizia. Ma alla fine queste isole recintate dove l’uomo tiene in esilio la Verità si risolvono in luoghi poetici, in limbi di mistero e di magìa, in zone di incanto, calcificazioni di sogni impossibili e realizzazioni di necessità gratuite, dove è possibile godere, quale proposta concreta di «salvazione», il «bel disordine» sognato da Breton, e dove – cercando con interesse vero piuttosto che con curiosità – ci è possibile ritrovare quell’«incontro fortuito su una tavola operatoria, di una macchina da cucire e di un ombrello» auspicato da Lautréamont.

(Guido Biasi, L’elogio del rifiuto, in “Documento sud”, n. 3, 1959.)