PUNTI DI FUOCO

«Spesso […] siamo esseri stagnanti percorsi da ondeggiamenti. […] Nel regno del fuoco, siamo bracieri di esseri».
(Gaston Bachelard)

L’arte è sempre verità struggente. Come la poesia,
è linguaggio libero rispetto a se stesso, è consolidamento delle trascendenze e il buio e la luce si pongono come due poli dell’immaginazione vissuta: due punti di fuoco.
«In noi ci sono parole che sognano», scrive Bachelard,
e l’artista fa sì che affiorino in tutta la loro capacità onirica poiché la sua anima è spazio fluttuante che ospita il «popolo dei sogni e delle fiabe».
Se la vita è una fiamma e la fiamma è una vita, come
si legge nel Prometeo di Eschilo, Mattia Vernocchi ha fatto del fuoco la sorgente naturale, la luce spirituale delle sue opere. Plasmate dal fuoco, simbolo della vita, nascono
al divenire di un tempo ermetico, circolare, per offrirsi - “pat de durmi” - al risveglio del sonno della ragione.

“Pat de durmi” è l’enigmatico titolo che Mattia Vernocchi ha voluto dare a questa sua personale: è una frase, composta da tre parole, che lui ricorda di aver letto
su di una panchina a Gambettola, tanti anni fa.
Il significato non è determinante, ma lo è il suono rotondo e avvolgente, lo sono le singole lettere
che insieme compongono le parole di questa breve frase che sfugge al significato convenzionale di una lingua
a noi nota. Non sappiamo a quale gioco delle convenzioni si sottraggano, ma poco importa… Perché
la ragione è soppiantata da una lettura a un diverso livello emotivo.
Assonanze con il nostro dialetto romagnolo frammiste ad una eco di lingua francese mi portano a pensare ad un “accordo”, ad un “patto” che sancisca, fra due o più esseri, un sereno dormire… Ma cosa è il sonno – questo “durmi” – se non l’abbandono totale di noi stessi al mistero del sogno e dell’oblio dove ogni regola è soppiantata in nome dell’appartenenza al regno della notte, ad un mondo senza confini? E non è forse l’arte stessa uno straordinario e formidabile sogno ad occhi aperti?
Ecco allora che le pieghe del futuro e del passato
si fanno alchimie della memoria nell’universo onirico. Ed è bello scoprire che Mattia Vernocchi ha conservato intatta l’autenticità e l’incanto nel ricordo della magìa
di una frase e di un suono che riverberano oggi, più
che mai, in tutte le sue opere.

La fotografia, cioè l’immagine permanente del senso dell’ineffabile, si pone al di là dei rumori visivi: è fuoco mentale, lastra della memoria che trattiene i nostri fantasmi. Forse per questo Vernocchi ha voluto celebrare con un rito le sovrapposizioni mentali e reali delle sue “reti ferrose”, questi mitici bracieri di fuoco, simbolo del riposo notturno, in una sorta di “focarina invernale” propiziatoria, avvalorandole per scoprire – assieme a pochi amici riuniti intono a lui – ciò che nella loro materia era già latente, per destinare la loro labilità alla permanenza, tramutando l’oggetto d’uso in parola nuova e sguardo visibile. E noi, gli astanti tutti, abbiamo fatto di quelle fiamme contemplate una ricchezza di “fuoco intimamente posseduto”.
Perché la psicologia del fuoco, come afferma Bachelard, ci apre «a una psicologia dell’intensità, dell’intensità pura, dell’intensità di essere. […] Il fuoco, nella propria vita,
è sempre un risorgere. È quando ricade che il fuoco diventa calore orizzontale, immobilità nel calore femminile». E la risonanza dei bracieri, Fuochi dell’Anima, si fondono con quelli del Fuoco d’Animus per sedimentare fecondamente in noi.

Le inclinazioni dei sistemi artistici si differenziano anche nelle scelte che sottendono ai valori etici. Tutte le sue sculture sono frammenti lancinanti che raddensano spiritualità ed estetica per diventare punti di fuoco cardinali. Credo che Vernocchi abbia operato un “assestamento di prospettiva”, impastando sonorità ritmiche e discontinuità retiniche.
Volendo parlare delle sue opere, occorre scrivere con parole in assonanza per una vivida aderenza emozionale.
Egli riesce a disegnare il suo mondo immaginario stemperandolo nel fuoco della notte, davanti alle costellazioni fondanti della poesia dell’arte,
o nell’antro del forno, forgiando due volte due
la materia ferro, ciò che è profondamente originario.
La semplicità dei materiali usati - terra e ferro -
dà fedeltà alta agli impulsi del suo immaginario mondo.
Le sue sculture sono estensioni di bellezza nella fluidità delle immagini che si strutturano prepotentemente, l’una sull’altra, come la creta che passando, per pressione, attraverso le “maglie” della rete di ferro
si metamorfizza per diventare altra corda. È come
se la materia rispondesse, necessitante, a se stessa.
L’oggetto si fa scultura diventando imprevedibile mutazione fascinosa di verità e di movimento che
si rafferma.
Tutto è centralità e nodo necessitante.
Solo il tempo riqualifica le cose come solo l’artista
è capace di riconfermare il suo essere mutante.
L’incanto della follia e del sogno sincreticamente
ci introiettano nelle origini del possibile attraverso
gli “assorbimenti” primari e vitali dell’arte. Tutto, per una cristallizzazione conoscitiva del perturbante
e per accedere ai recessi della memoria inconscia
in un viaggio che potrebbe apparire “nomade” ma che perviene alle sonorità immote di spazio e tempo.
Come la mistica cabalistica mette in relazione le lettere dell’alfabeto con gli organi interni del corpo, così
le permanenze estetiche di Mattia Vernocchi cedono vitalità visiva ai sentimenti rifondando le qualità della materia, mettendole in creativa osmosi.
Si attua un divenire che ha forti tangenze con
il cabalistico Libro della formazione: il “Sefer Yetzirà”.
Nel buio e nella luce del fuoco si esprime la sua voce artistica, per un «significato latitante» (C. Magris).
L’artista tesse le proprie storie per sé e per chi vuole intenderle nella ricerca di un frammento di verità.
Lasciamo allora che i suoi occhi assorbano i raggi del sole e si trasmutino in raggi velati di fuoco.
Gli artisti tessono da sempre storie per avvicinare
le vite degli uomini agli altri uomini perché come potenti sciamani, le legano in un unico fascio luminoso. Così possono guarire le malattie dello spirito.
Perché noi tutti abbiamo bisogno di incantesimi.


Marisa Zattini