L’AUTODAFÈ DELLA MATERIA

Non è un caso che le opere di Mattia Vernocchi
si sagomino sui letti, sui telai dei letti – in quell’alter suolo o soprassuolo da cui sporgono per poi tornare a eclissarsi tutte le nostre deviazioni notturne, le nostre notturne concrezioni. Il telaio poi ha orifizi, strettissimi capillari di assorbimento e rilascio – è facilitatore, traspira: la materia notturna sale e scende, vi passa attraverso. Non è un caso che i letti siano rugginosi
e contorti, lussati e tumidi – alla stessa disciplina
si addestrano i sogni che vi facciamo. A volte le testiere ricordano i giacigli delle camere padronali, di antiche stanze di famiglia: strutture altissime e pesanti coltri che toccano il pavimento – nell’intercapedine a contatto col terreno andare a raccogliersi la polvere delle visioni incubate durante le nostre dormizioni. Una invisibile pesantezza grava le reti e le inarca: sulla loro superficie resta impresso il calco del torso e dell’addome di un ospite incorporeo, lungo il tracciato delle lamelle di ceramica possiamo leggere i segni incisi dal suo esofago, contare ciascuna vertebra; i letti sono sgualciti, qualcuno di qui è passato, qualcuno ha qui abbandonato la sua crisalide – in quello del bambino
è rimasto un giocattolino cotto.
La terra che entra in miscela con questi telai e queste reti rivela una nuova attività organica, mostra nuovi e profondissimi spessori. Spessori rivestiti da una dormienza apparente, percossi da pulsazioni, da coordinate germinative e generative. Strati di una materia magmatica che, nuovamente impiegata, nuovamente stimolata, mostra i suoi rigonfiamenti, le sue sporgenze, le sue tumefazioni – come se una vita sepolta nella materia, nel notturno delle sue pieghe, desiderasse riemergere, prendere sembianza antropomorfa, riconquistare i lineamenti, assumere un aspetto. Ciò che spinge, che chiede una forma, sono i sedimenti della storia, le epoche di queste terre e questi metalli, il loro aver inglobato e custodito la meccanica volitiva di intere generazioni, di intere generazioni il passaggio – sul guanciale giace un fossile di fantasma: forma riconsegnata alla sua minima resistenza, riconciliata al suo trascorso geologico.

Occorre guardare a questo peso specifico, a questa fibra, alla specifica intensità della terra e del metallo – alla terra dissodata e al metallo crivellato. Occorre guardare alla valenza di questi componenti, oltre la disciplina ceramica e scultorea, perché è in loro che si fissa il linguaggio di queste opere. Oltre l’idea del processo ceramico come arte, come complesso decorativo e figurativo, come funzione; ma anche oltre la pratica scultorea: le forme e i volumi sono sottoposti a una manipolazione che contempla anche la casualità, limitandosi a portare in luce profondità già contenute nella materia, rapprese nelle sue maglie.
La tensione non è dunque riversata nella composizione, nell’efficacia operativa, ma attestata dagli elementi, dalla terra e dal metallo: l’operazione di Mattia Vernocchi è completamente incanalata nel trattamento delle materie, irretita dall’accostamento e conseguente frizione di fisiche tra loro incompatibili, tutta applicata a un nuovo, imprevisto, loro possibile equilibrio –
la sua espressione è espulsione, energia di trazione
e contrazione: un autodafé della materia. Quello che lo avvince è la risposta delle sostanze, il loro consistere di massa. Se i volumi generano relazioni nel loro sviluppo, instaurandosi sempre in rapporto allo spazio, le masse sono pura forza, potenza di sprigionamento, agglomerato. Le masse stabiliscono un campo che
ha solo in parte minima a che vedere con la spazialità – e questa parte minima riguarda unicamente il loro imporsi. Qui lavora un nuovo calibro, una dimensione che include la pressione del demiurgo e la resistenza della creazione, una strategia che mira alla combinazione, alla prova di malleabilità e di fissaggio. Come in un grande braciere industriale, in un grande cantiere bellico, la sapienza dell’artista, artificiere, guastatore, è nel punto di fusione: la creazione è la salma del sacrificio compiuto nella camera di cottura.

Stimolare resistenze ed effrazioni: passando per diversi gradienti di energia le condutture vasomotorie di ogni elemento tentano un aggiustamento. Il disordine dell’energia, la sua irruenza, produce nuovo ordine. Lo spasmo che attraversa queste opere è disteso e diluito, pacificato – la segmentazione è coerente, atomistica; ogni grido della terra è separato, ha una propria latitudine, ogni coccio assestato, piccola particella di un mosso, fluttuante mantello, tessera screziata di un mosaico senza centro, consistendo ogni tessera in una centratura. Da una parte i punti di sutura, gli anelli della rete; dall’altra il tessuto di creta, frazionato
in tante piccole scosse, piccole onde che rappresentano i suoi locali adattamenti, il suo punteggiato farsi strada, trovare sbocco e spiccare. Queste emissioni, queste vie di fuga sono anche le vie di incontro,
di innesto, dove un materiale si plasma sull’altro, l’uno nell’altro penetrando: l’espressione è espulsione, nuova produzione – ciò che conta è questo amalgama, la risonanza dell’accoppiamento, la taratura del conflitto, il potenziale reagente – e dunque lo scarto. Ciò che conta è questa partitura di micro-collere della materia, di suo ruggito e rigurgito, la rutilante orchestra del rito industriale. Musica trionfale, di clamor artis e insieme
di espiazione – strepito del ferro e del mattone.

L’effetto di queste opere, la resa compositiva,
è secondaria; la loro collisione, la loro lotta, è quello che continuano a rilasciare – “non rendere il visibile, ma rendere visibile”, estrarre, al di là delle sostanze,
i rapporti di forza che le legano, rendere sensibili forze
e dolori impercettibili, forze telluriche sopite
e al contempo incessantemente operanti. Vernocchi non formalizza, non traduce, non contiene entro uno spazio figurativo – non ci consegna un diverso consistere della materia ma la materia stessa restituita alla sua consistenza lacerata, violentata. Se i Cretti di Burri significavano la cristallizzazione perimetrata e vigilata di un esaurimento della terra, di un suo inesorabile essiccamento storico e morale, qui le crepe, i crateri, le smagliature sono le faglie instabili di un movimento che perdura, il tangibile di forze ancora
in atto. Per Vernocchi non si tratta di assegnare un senso alla lacerazione, di decifrarla o illustrarla (azione che in Burri trova il suo culmine nel double bind narrativo dell’intervento di Gibellina, cretto-sudario disteso sulle spoglie della città e insieme sua nuova planimetria), ma di scarcerare, di liberare davanti
ai nostri occhi la lacerazione in atto. Gibellina era
la figurazione della terra desolata in superficie e quindi ancora narrabile, ancora percorribile; qui la terra è desolata nelle viscere, nelle sue profondità ctonie – e da queste manda segnali nervosi e recalcitranti, richiami che cercano una compensazione.


Roberta Bertozzi